mercoledì 7 marzo 2012


La moglie di Juan: i razzisti mi fanno pena
loro ululavano, nostro figlio piangeva



Juan con la moglie Monick

ROMA - «Quella gente mi fa soltanto pena». Quella gente, i razzisti. Rigida, determinata Monick, la moglie di Juan, due pomeriggi dopo quel maledetto Roma-Lazio, la partita che tutta la famiglia Silveira dos Santos non dimentica, è ancora delusa, sorpresa, perché il razzismo non sa cosa sia, non lo concepisce per cultura. Juan nero, Monick bianca, Joao Lucas, il figlio di sei anni, che tutti chiamano Gianluca e che somiglia a papà. «Lui cresce senza vedere differenze tra i colori della pelle».

In famiglia, a scuola, ovunque, non la sente come una diversità. Per questo domenica è rimasto sorpreso». Non esistono razze, esiste l’uomo, non esistono i razzisti, esistono gli idioti.

Gianluca frequenta una scuola internazionale a Casal Palocco, a pochi passi da casa, a cinque chilometri dal mare di Ostia. Un istituto multietnico, ci sono brasiliani, giapponesi, tedeschi, bambini di ogni colore ed estrazione sociale. C’è chi si può permettere la retta salatissima, chi fa sacrifici e se la permette lo stesso. Il piccolo è abituato a confrontarsi con tutti, senza distinzioni. E gli altri lo stesso fanno con lui. Quasi un mondo perfetto. Guai a uscirne. Quel pomeriggio di Roma-Lazio, Gianluca era in tribuna insieme con la mamma. «È scoppiato a piangere quando ha visto il papà soffrire per quei buu. Adesso ha sei anni, capisce tutto, non gli si può nascondere più niente. Vede, metabolizza, elabora. E ci sta male. In Brasile una cosa del genere non succede. Lì sono molto più severi. In più, domenica, vedendo il papà uscire dal campo zoppicando, si è preoccupato doppiamente», sottolinea Monick.

Siamo andati a trovarla ieri mentre andava a prendere il figlio a scuola. Ora d’uscita dei bambini, 15.25. Fa freddo, sta per cominciare a piovere. Lei, abiti semplici, sguardo determinato, ci viene incontro, curiosa di sapere il motivo della nostra presenza. Sensazioni due giorni dopo l’accaduto? Suo marito ora è più calmo? «Juan è troppo buono, non l’ho mai visto insultare nessuno o anche reagire in maniera scomposta verso chi lo ha preso di petto. Solitamente è tranquillo, domenica mi ha sorpreso quando l’ho visto zittire chi ululava. Ha fatto bene. Io avrei fatto anche peggio. Il razzismo è criminale. Non gli era mai successa una cosa del genere, né a Roma né in altre parti dove siamo stati. È stato molto triste».

In tribuna Monick e Gianluca hanno sofferto molto, da subito. «Quando hanno cominciato a ululare contro Fabio Simplicio, ma nessuno lo ha notato lì per lì e nemmeno nei giorni successivi. Poi è toccato a Juan. Doveva lasciare il campo? Non lo so se sarebbe stata la cosa migliore, ha reagito in quel modo e questo basta. Pian piano sta tornando tutto alla normalità, ma quello che è successo lascia comunque il segno». Vien da dire, meglio andare via da Roma, vista la situazione? «No, questo no. Non lo so», risponde cauta. Nessuno ha intenzione di scappare, semmai di combattere l’ignoranza. «Noi brasiliani non siamo abituati a certe situazioni. Il nostro è un Paese multietnico, nasce dai colonizzatori. Abbiamo visto arrivare portoghesi, africani, indios. È normale il confronto con altre etnie, per noi è consuetudine vivere insieme, annullando ogni differenza. Per questo oggi sono ancora stupita, mi sembra tutto così impossibile».

Fischiare, ululare, uno coinvolge un altro, anche se non lo vuole. Dentro al gregge finisce pure chi razzista non lo è. Per spirito di emulazione. A volte si contagia anche la stupidità. «Una cosa mi piacerebbe vedere: perché tutti quelli che hanno urlato buu a mio marito o a Simplicio o a qualsiasi altro giocatore, non vanno in una favela brasiliana a fare la stessa cosa? Le assicuro che vedrebbe reagire quella gente in maniera piuttosto dura, anche se gli mancasse un braccio». Ci vuole coraggio, insomma. Che non è lo stesso che si manifesta negli stadi con qualche buu buu coperto dall’ombra di una massa anonima.

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